domenica 12 gennaio 2014

La ruota elettrica di Copenhagen...




Nel weekend un caro amico mi fa notare questa "notizia":
http://pro2.unibz.it/projects/informateria/design/la-ruota-elettrica-di-copenhagen/

Avevo notato questo prodotto due annetti fa...ma non ho ancora visto queste meravigliose ruotine con il mozzo rosso per strada. Ora cercando bene vedo che il progetto era stato presentato già alla fiera di Hannover nel 2010:
http://www.anfia.it/allegati_contenuti/Ducati%20energia.pdf

Che dire? Visti i nomi coinvolti - il solito MIT che ormai è come il prezzemolo , Ducati Energia, ingegneroni vari - direi che è un bel progetto teorico finanziato con le nostre tasse.
Perchè dico teorico?
Sicuramente bella l'idea del "con 1000 euro tolgo la vecchia ruota e la sostituisco al volo con quella elettrica"...peccato che quella bella ruotina rossa sia l'ennesima scatola chiusa da buttare via quando non funzionerà più, perchè è impossibile/sconveniente ripararla...basta dare un occhio alla foto dove si vede l'interno, pieno di pacchettini di batterie agli ioni polimeri, incastrati e collegati non si sa come...diciamo che mi sembra la "versione Apple" di una normale ruota con hub motor, visto che tra l'altro costa quattro volte tanto...

Visti i tempi steampunk che probabilmente ci attendono, molto meglio un piccolo motore elettrico da fissare al telaio della bici, ed una batteria esterna, entrambi sostituibili alla bisogna da un qualsiasi utente di buona volontà provvisto di pinza e cacciavite.

Oppure il caro vecchio Mosquito, che probabilmente i più vecchi ricordano
http://it.wikipedia.org/wiki/Garelli_Mosquito ...che forse - ma dico forse ad occhio perchè non ho tempo di fare quattro conti - è anche più sostenibile della "ruota di Copenhagen", se non altro perchè magari dura trent'anni invece che tre...

venerdì 4 ottobre 2013

Davide contro Golia



Ieri sera ho tenuto una piccola conferenza, per una quarantina di persone interessate, sul tema a me caro della in-sostenibilità dell'attuale non-sistema di gestione delle nostre (finite) risorse.Ovviamente non sono mancate le critiche. Alcuni ritengono che il mondo è - e sempre sarà - in mano ai più forti più grandi, e che è meglio far parte delle elites economiche ed essere cittadini di un paese forte come gli USA, che arrovellarsi su come vivere più dignitosamente a livello locale nelle nostre comunità, seppure con meno consumi.

Guardate qua intanto http://www.nasa.gov , che forza eh? Il sito della NASA è così da almeno una settimana...Eheh, così come l'idrogeno è solo un modo per immagazzinare l'energia, così il denaro è solo una unità di misura di beni e servizi, che ti può anche permettere di costruire per qualche decennio un impressionante schema di Ponzi galattico, ma è destinato a crollare per la mancanza reale di risorse fisiche. Prossimamente sui vostri teleschermi (se funzioneranno). 

Giusto per ribadire che "piccolo" è meglio di "grande", e che il grande farà molto rumore al momento del crollo.Essere parte di una grande organizzazione potrà farci sentire più potenti e tutelati e sulla cresta dell'onda e "ricchi", ci sembrerà di essere parte integrante di quel potere espresso dalla mega-macchina di cui facciamo parte, ma la realtà è che - anche se ci danno da mangiare hamburgher e patatine fritte a volontà - siamo meno liberi di un pigmeo che si nutre di succose cavallette, e siamo sempre carne da cannone, dei piccoli ingranaggi sacrificabili per il "bene comune".

sabato 28 settembre 2013

SeNonHaiQuellaCosaNonSeiUnoDiNoi

Quando affronto il tema della della crisi sistemica globale con le più
svariate tipologie di persone, noto che il più grande dei tabù è proprio
quello della possibile prossima de-industrializzazione della società, o
quanto meno di un grosso ridimensionamento dell'industrializzazione.
Siamo semplicemente terrorizzati da questa idea…ho infatti  l’impressione
che tutti più o meno siamo consapevoli di essere immersi in una corrente
di profondo cambiamento, e ci sentiamo “astrattamente” pronti ad
affrontarlo: ecco, siamo pronti a respirare aria più pura, a mangiare cibo
a chilometri zero, perfino a zappare nell’orticello.
Ma l’idea di non poter più avere la seconda o terza auto di famiglia,o
pensare di festeggiare un compleanno senza bicchieri di plastica, è
semplicemente impensabile. Quando ne parli, la gente ti guarda come un
integralista. “Ma cosa stai farfugliando? Guarda che la gente non tornerà
mai a muoversi in bicicletta, è troppo faticoso…”
Quando si tocca l’argomento “tecnologia di consumo” scopro che questo
aspetto della vita dell’odierno homo sapiens non è negoziabile. Direi anzi
che è assolutamente intoccabile.
Ma perché dovremmo avere così tanta paura all’idea di vivere in un mondo
più lento?
Leggete il seguente articolo tratto dal sito http://www.oilcrash.com/italia.htm

Gabriele Casali

INDUSTRIALIZZAZIONE E' UGUALE A PROGRESSO?

Da sempre ci hanno abituati a considerare l’industrializzazione come
sinonimo di progresso, al punto che una società che non ha sviluppato una
economia di tipo industriale è, già solo per questo, considerata una
società arretrata.
Ma in realtà in cosa consiste l’industrializzazione?
Essa null’altro è che la sostituzione di una cultura materiale di tipo
individuale con una di tipo collettivo.
Prima che tale processo iniziasse, quando cioè l’organizzazione sociale
era prevalentemente di tipo rurale, la capacità di produrre da sé gran
parte delle risorse di cui si aveva bisogno era cosa comune, come lo è
tutt’oggi presso i superstiti popoli che ci hanno abituato (indottrinato)
a definire primitivi.
La cultura materiale insomma era posseduta individualmente da ciascuno.
L’industrializzazione ha progressivamente sostituito tutta una serie di
processi produttivi “maneggiabili” su scala individuale o familiare, o
comunque di piccole comunità, con una serie di processi produttivi che
presuppongono apparati di grosse dimensioni, a loro volta dipendenti da
reti commerciali ancora più vaste.
Prima che ciò avvenisse l’individuo era potenzialmente libero dalla
dipendenza dal proprio branco (uso qui questo termine in senso puramente
etologico). Ad esempio, nel medio evo, il feudatario aveva bisogno di
imporre l’obbligo di macinazione del grano nel proprio mulino, e i
conseguenti oneri, perché l’agricoltore sapeva benissimo come si macina il
grano e avrebbe potuto provvedere da sé.
La schiavitù dell’individuo insomma esisteva pur sempre (non ha mai
cessato di esistere) ma era da imporre dall’esterno. L’individuo aveva
tutte le conoscenze necessarie a provvedere da sé ai propri bisogni. La
cancellazione di questa cultura materiale individuale ha reso l’individuo
completamente — e intrinsecamente — dipendente dal branco anche per le sue
necessità di tipo più elementare.
Non c’è necessità, oggi alla quale l’individuo sappia provvedere con i
propri mezzi; egli sa fare ormai una sola cosa: vendere una consistente
parte del tempo della propria vita a un datore di lavoro dal quale riceve
in cambio del denaro che gli servirà a comprare il tempo della vita di
qualcun altro il quale provvederà a fornirgli questa o quella risorsa,
l’unica a sua volta che egli è in grado di produrre (l’idraulico, il
falegname, il salumiere, ecc.).
I biologi dividono gli animali in due categorie a seconda della capacità o
meno dei loro piccoli di procurarsi il cibo appena nati: atti e inetti.
Atti sono ad esempio i pulcini, inette sono le rondinelle e tutti i
mammiferi, fra cui l’uomo.
L’uomo (quanto meno l’uomo “industrializzato”) ha però in più una
caratteristica: è l’unico animale superiore che rimane inetto per tutta la
vita. Per trovare situazioni analoghe bisogna scendere fino al mondo degli
insetti (le formiche o le api), fino a casi estremi cioé in cui
l’individuo non ha una sua specifica identità ma è soltanto un elemento
puramente esecutivo all’interno di una entità più grande (il formicaio, lo
sciame…).
Questo è dunque ciò che ci hanno abituati a chiamare uno stato di
progresso avanzato: un totale annientamento dell’individuo, totalmente e
intrinsecamente sottoposto alla schiavitù del branco.
Il potere in una società industriale non ha alcun bisogno di emanare leggi
che costringano l’individuo a ricorrere alle strutture che esso possiede:
l’individuo non sa fare altrimenti, perché ha ormai perso ogni capacità di
badare a se stesso, anzi ha completamente perso la stessa concezione del
fatto che si possa fare altrimenti.
Tempo fa ho udito una donna dire: «l’anno scorso siamo impazziti e abbiamo
fatto l’orto»; ciò che era insomma la cosa più ovvia e quotidiana fino ad
appena qualche decennio fa oggi viene descritta non solo come cosa
eccezionale, ma addirittura eccentrica, assurda.
Alla stessa donna ho dovuto spiegare cosa significasse che il suo terreno
era esposto a nord.
E questo introduce un altro aspetto della questione: la perdita del
contatto col mondo reale: se il branco provvede a tutto, il branco è
tutto, null’altro esiste al di fuori di esso. Credo che mai, neppure nel
medio evo della Santa Inquisizione, neppure nell’Egitto dei faraoni, il
branco abbia assunto una fisionomia così totalizzante, al punto da
cancellare non solo le potenzialità di libertà dell’individuo, ma la sua
stessa percezione del mondo reale.
Si ricorderà la nota scena del film Padre padrone in cui al bambino viene
insegnato a riconoscere i suoni della campagna che lo circonda: bene, è
falso affermare che il padre di Gavino Ledda lo abbia strappato dalla
scuola per consegnarlo alla barbarie e all’ignoranza: lo ha trasferito da
una scuola a un’altra scuola (prescindo naturalmente dai metodi usati da
quest’uomo, che sono tutto un altro discorso); aggiungo, dalla scuola
delle parole alla scuola del mondo reale.
Si potrà obiettare che è vero, tutto ciò è accaduto, ma questo ci ha
consentito un nettissimo miglioramento del nostro livello di vita. È una
delle più grandi menzogne che la “propaganda di regime” (non so come altro
chiamarla) ci ha propinato, e con molta efficacia a quanto pare.
In realtà la qualità dei prodotti e dei servizi messi a nostra
disposizione dagli apparati industriali, e di riflesso la qualità della
nostra vita che, come già detto, è da essi strettamente dipendente, non è
nella maggior parte dei casi migliore di quella degli equivalenti prodotti
e servizi realizzabili individualmente o comunque su piccola scala.
I procedimenti industriali consentono soltanto di concentrare la
produzione e realizzarla in grande quantità ma senza che ciò comporti
alcun miglioramento qualitativo.
Del resto il marchio “Produzione artigianale” è ormai, e con ragione,
comunemente considerato sinonimo di qualità. Esempio banale: un panificio
che vuole pubblicizzare la qualità dei suoi prodotti espone abitualmente
una insegna del tipo: “Pane casareccio con forno a legna”, non si vanterà
mai di certo di usare un forno elettrico e di lavorare in serie.
Un esempio a mio avviso significativo è quello dei cesti, fino a qualche
tempo fa realizzati mediante verghe e canne intrecciate a mano e oggi
generalmente sostituiti da contenitori di plastica.
Per realizzare un cesto di verghe e canne occorrono a un esperto
intrecciatore due ore di tempo e una minima, davvero minima quantità di
semplicissimi attrezzi (il più “complesso” è costituito da un paio di
cesoie), nonché, ovviamente, la conoscenza delle tecniche di intreccio.
Il risultato è un oggetto di notevole pregio estetico, pratico e robusto;
si pensi a quest’ultimo proposito che mia madre ha un paniere vecchio di
oltre 50 anni e che esso è assolutamente indistinguibile, dal punto di
vista dell’usura, da un altro realizzato con l’identica tecnica qualche
mese fa.
Per confronto gli analoghi contenitori prodotti dall’industria della
plastica richiedono grossi apparati industriali, a loro volta dipendenti
dagli ancora più grossi apparati dell’industria petrolifera, sono in
genere oggetti privi di ogni pregio estetico e vanno a pezzi nel giro di
pochi anni.
Dunque quale è stato, in questo campo, il risultato dell’industrializzazione?
Un oggetto dozzinale e di breve durata ha preso il posto di un altro
robusto, duraturo e bello.
Inoltre, il diffondersi di tali oggetti ha comportato il progressivo oblio
delle tecniche di intreccio, tecniche alla portata di tutti a favore di
altre tecniche, non certo attuabili né, ovviamente su scala individuale,
né su scala locale. L’individuo che aveva bisogno di un contenitore
insomma aveva fino a qualche tempo fa la possibilità di costruirselo da
sé, oggi non ha altra scelta che comprarlo dall’industria, perché non sa
più come fare.
Un’altra menzogna che ci viene spesso ripetuta è che la tecnologia
industriale consente all’uomo di avere un maggior quantità di tempo
libero, eppure tutti intorno a me non cessano di ripetere che vanno sempre
di fretta, e che questa o quella cosa non si può più fare perché non c’è
più il tempo che c’era una volta.
E sempre a proposito di tecnologia, ho udito tempo fa casualmente una
trasmissione televisiva sull’industria vitivinicola in cui almeno metà
delle frasi pronunciate dallo speaker iniziavano con le parole: «grazie
alla tecnologia…» e la cui tesi era che il vino “tecnologico” prodotto
oggi è molto migliore di quello prodotto una volta con tecniche
casalinghe.
La persona che mi ha insegnato a fare il vino lo fa in casa da decenni;
l’ho assaggiato trovandolo squisito, di gran lunga superiore a quello
commerciale ottenuto «grazie alla tecnologia».
Ultimo esempio (ma potrei andare avanti ancora a lungo): di recente ho
ritrovato la casa di una mia prozia che viveva in piena campagna sui
Nebrodi orientali, dove andavo a volte a trascorrere qualche giorno
d’estate da bambino: è un casale immerso nel verde di splendidi boschi e
uliveti, dal quale si gode la vista del mare in lontananza su cui
galleggiano, all’orizzonte, le isole Eolie.
Trovo superfluo dilungarmi nel descrivere la quiete del luogo, l’aria
pulita eccetera: sono cose che troverete su ogni pubblicità di azienda
agrituristica, e cui evidentemente non si attribuisce poco valore se si è
disposti a versare nelle tasche dei titolari di tali aziende fino a
100.000 lire al giorno.
Per confronto, un’altra mia parente trasferitasi da giovane a Roma, vive
oggi in un piccolo appatamento al sesto piano di un gigantesco condominio
sulla Tiburtina, dal cui balconcino si gode la vista… del muro del
condominio di fronte.
È questo dunque il miglioramento della qualità della vita?
Con ciò non voglio dire che i contadini stessero bene: spesso la miseria
faceva parte della loro vita, ma ciò nasceva da condizioni estrinseche
(l’oppressione del feudatario nel medioevo, del latifondista in tempi più
recenti…); oggi un’altra miseria si è sostituita a quella, la miseria di
una squallida vita da formicaio, con in più il fatto che questa è una
miseria ormai intrinseca, connaturata a questo modello economico che
presuntuosamente chiamano “modello di sviluppo”.
Si potrà obiettare che molte tecnologie che così tanta parte hanno oggi
nella vita di ciascuno di noi sono talmente sofisticate da non essere
neppure pensabile che esse siano producibili individualmente o a livello
di piccola comunità.
È vero, tuttavia domando: ne abbiamo veramente bisogno? O meglio, più in
generale, quanti dei nostri “bisogni” quotidiani sono veramente tali e
quanti sono al contrario indotti dal tipo di vita che conduciamo allo
scopo di procurarci i mezzi economici necessari a soddisfare quei bisogni
(esempio: l’automobile)? Qualche tempo fa notavo che mia madre vive
agiatamente con una pensione che, se fosse il mio stipendio,
rappresenterebbe per me uno stato prossimo alla povertà.
La ragione è che mia madre non ha alcun mutuo da pagare (io ho dovuto
comprare una casa a distanza accettabile dal posto di lavoro, pagandola un
prezzo molto più alto di quel che avrei potuto pagare una casa analoga
posta in un luogo più desueto), non deve mantenere i costi di
un’automobile (io ne ho bisogno quotidianamente per andare al lavoro),
eccetera.
Fin troppo facile immaginare che quando le circostanze mi consentiranno di
lasciare il lavoro “dipendente” e dedicarmi interamente al progetto che
sto qui descrivendo, le mie esigenze di tipo economico si ridurranno di
parecchio. In condizioni ideali, sarebbe perfino lecito affermare che esse
possano ridursi a zero.
Un altro punto è costituito dai bisogni di tipo psicologico, ovvero
totalmente fittizi perché creati artificiosamente dal branco, bisogni cioé
che sono tali solo perché il branco ci ha inculcato fin da piccoli l’idea
che “
senonhaiquellacosanonseiunodinoi” (esempio: la televisione, il
telefono cellulare): qualche tempo fa ho udito una persona di Ucria, di
quelle che sanno ancora fare il pane a mano col forno a legna, dunque non
certo fra le più immerse nel mondo della produzione industriale, l’ho
udita dicevo pronunciare una frase come: «ma come facevano una volta senza
televisione?» Si è giunti al punto che perfino un oggetto fra i più
insulsi (e non aggiungo altro) è considerato fra i bisogni primari.
Fra i quali invece non ci sono cose come l’aria pulita, la vita sana, il
buon cibo, il contatto con la bellezza del mondo naturale e molte altre
cose di cui si fa quotidianamente a meno convinti che sia un dettaglio
trascurabile in confronto al superiore fine del raggiungimento del
“benessere”.
Non rendendosi conto che il vero benessere è costituito proprio da queste
cose.
Qualche tempo fa udivo durante una trasmissione televisiva parlare di
Tokio: un luogo dove lo spazio pro capite è fra i più bassi del mondo,
eppure, diceva lo speaker, nonostante vivano letteralmente ammassati gli
uni sugli altri, nonostante l’aria irrespirabile (sono divenute famose le
prese di ossigeno nella metropolitana) e tutto il resto il tenore di vita
a Tokio è fra i più alti del mondo. Mi domando che cosa intendessero gli
autori di quella trasmissione con il termine “tenore di vita” per definire
così positivamente quello di un tale formicaio.

sabato 17 settembre 2011

La mia risposta al "Paradosso di Fermi"


Lunedì sera.
E’ stata una dura giornata di lavoro, la prima di una lunga settimana.
I soliti clienti ti hanno massacrato, i soliti colleghi ti hanno annoiato.
Non parliamo del capo, avido benestante e borioso come sempre. Odioso. Magari avere i suoi soldi…invece da anni hai un lavoro che non ti piace, che non hai scelto, ma che ti serve.
Per poter mangiare, crescere i figli, pagare la casa, comprare l’auto nuova, fare benzina, andare in ferie.
Poi finalmente sono arrivate le diciotto, hai potuto salire in auto e prendere la strada di casa.
Sì, c’erano i soliti cafoni per strada, gente che non sa guidare. Che tonti. Ma tanto loro erano fuori dalla tua scatola mangiaolio.
Non sono riusciti a rovinarti quei pochi chilometri, che come sempre ti fanno riscoprire il piacere di guidare il tuo gioiellino. Devi proprio ricordarti di andare dal carrozziere però, che c’è quel graffio sullo specchietto da sistemare.
La cena non è stata niente male, le crocchette di patate erano un po' unte ma deliziose, insieme al pollo. Passano gli anni ma la tua rosticceria di fiducia è sempre all'altezza.
Sono le ventuno ora, sei in pigiama sulla poltrona, il tg è già passato, è finalmente arrivato il momento di metterti a lavorare al tuo libro. Ci lavori da qualche mese (forse due anni) e sei già ad un quarto dell'opera (un quinto?...un decimo), e sei convinto che le prossime settimane saranno proprio quelle giuste per macinare idee.
Diventerai qualcuno. Parleranno di te, delle tue idee originali e illuminanti. Lascerai qualcosa, potrai essere ricordato negli anni a venire.
Accendi il laptop.
Carichi il word processor.
Rileggi da capo a fondo quello che hai scritto, ti compiaci (giustamente) del tuo stile narrativo.
Prima di continuare ti alzi, apri il frigo e ti prepari un bicchiere di latte freddo.
Una spruzzata di Kahlua.
AAahh...
Sorseggiando, ti risiedi e rileggi di nuovo l'ultima pagina.
Ok, sei un po' stanco, ti deconcentri, d'altronde sei sicuro che...non riesci a non pensarci...
Ti alzi, e vai alla finestra del soggiorno.
Spegni la luce per vedere meglio il mondo fuori.
E' proprio come pensavi, il bastardo sta girando tra le aiuole, ovviamente sta cercando il posto (i posti) migliore dove pisciare.
Silvestro, il gatto del vicino, come sempre crede di essere il padrone del tuo giardino.
Sai che con la fionda non ci sono speranze. Ci hai già provato varie volte, anche caricando a mitraglia, ma il bastardo è un bersaglio impossibile da colpire, soprattutto al buio.
Hai rinunciato a punirlo fisicamente, non è fattibile per limiti tecnici del tuo armamento, ma puoi sempre fargli balzare il cuore in gola e rizzare i peli dello scroto.
Esci dal retro di soppiatto e fai il giro della casa, laidamente accovacciato e grifagno come un troll norreno, poi a dieci metri dalla bestia scatti in avanti abbaiando oscenamente e cercando di artigliarlo.
Lo rincorri per due-tre secondi. Ti godi la scena del poveretto che annaspa, traboccante di adrenalina, salta scompostamente la siepe e si sbrana una striscia di pelo sul fil di ferro della rete.
Gli urli ancora qualcosa, poi resti lì vicino al cancello a prendere un po' di fresco godendoti la vittoria. Giustizia è fatta.
Visto che sei fuori (il libro può aspettare) ne approfitti per buttare un occhio all'immensità del cielo stellato...chissà se c'è qualcun altro lassù...

Ma veniamo al titolo del post.
L’aneddoto racconta che un giorno, presso i laboratori di Los Alamos, negli anni ’50, il fisico Enrico Fermi prese parte ad una conversazione insieme ad alcuni suoi colleghi mentre si recavano a pranzo, a proposito di un recente avvistamento UFO riportato dalla stampa.
La conversazione si protrasse poi su vari argomenti correlati finchè, durante il pranzo, Fermi improvvisamente  esclamò: “Where are they?” (Dove sono?)
Il significato dell’esclamazione di Fermi si può riassumere così “Se le forme di vita extraterrestri sono comuni e diffuse nell’universo, perché non le abbiamo ancora incontrate?”

Ovviamente come tutti gli aneddoti non conosciamo il confine tra realtà e fantasia. Questa frase potrebbe essere stata pensata da chiunque ed essere stata “messa in bocca” a Fermi per darle una veste di autorevolezza scientifica, magari da parte di qualche potentato religioso antropocentrico .
Sul web potete trovare molti articoli e commenti sul paradosso di Fermi, cè solo l’imbarazzo della scelta. Ma al di là delle decine di risposte e ipotesi date finora, vi sottopongo la mia riflessione personale.

Data la vastità dell’universo che ci circonda e le stime sul probabile numero di stelle e galassie, ritengo come voi poco credibile che non esistano altri pianeti simili al nostro, in grado di ospitare forme di vita “intelligente”. Quindi partiamo pure da qui, da una frase sentita migliaia di volte: NON SIAMO SOLI.

Esatto, NON SIAMO SOLI, ma come sono fatti i nostri alter ego alieni?
Intendo dire: non fisicamente, ma come intelletto, come sono messi secondo voi?
Che possibilità hanno di pensare seriamente alla conquista di nuovi mondi, ed applicarsi per la  realizzazione di un simile ambizioso progetto?

Per mio conto il mesto teatrino descritto in apertura - e che voi avete immaginato svolgersi sul suolo terrestre - potrebbe benissimo andare in scena dalle parti di di Andromeda (per la cronaca 2,5 milioni di anni luce).
Magari laggiù il gatto non si chiama Silvestro ma DKQOLXIZ, il latte si ottiene spremendo (SQUAZ-SBLURCH) dei grossi succosi bruchi bianchi, e i vostri colleghi hanno tutti una brutta codaccia marrone ricoperta di squame unte, ma la sostanza non cambia.
Noi umani ci vantiamo di essere migliori e diversi dalle bestie, anzi ci chiamiamo fuori dal mondo animale e dalla natura stessa, che ci può essere amica o nemica ma resta comunque "altra", sia nel nostro cervello che nei nostri atti quotidiani.
Ma se provassimo ad osservarci da un punto di vista abbastanza ampio e prolungato nel tempo, la realtà macroscopica apparirebbe ben altra.

Punto 1) Come tutte le popolazioni animali tendiamo a consumare tutte le risorse disponibili, e a riprodurci geometricamente. Che sia per necessità o per piacere lo facciamo, lo abbiamo sempre fatto. E purtroppo siamo i più veloci a consumare e distruggere, e anche a moltiplicarci (se volete approfondire, cercate notizie sul malthusianesimo).
Possiamo dire che facciamo tutto questo con "intelligenza", ma in realtà significa solo che i nostri ragionamenti sono molto organizzati e contorti di quelli di un maiale o di un cane. In ogni caso, come il maiale o il cane, il nostro cervello - tra alti e bassi - è fondamentalmente alla ricerca di un equilibrio chimico. La ricerca di questo equilibrio purtroppo passa anche per la moda, il consumismo, il depauperamento scellerato delle risorse.
Punto 2) Purtroppo Il nostro pianeta è un sistema finito e limitato, e credo che queste caratteristiche siano comuni a qualunque altro pianta.

Ma fino a qui i problemi potrebbero essere risolti...dopotutto ci saranno altri mondi abitabili che potrebbero offrire ospitalità, energia, materie prime, a miliardi e miliardi di persone.
E qui si innesta il problema, insormontabile. Non è un limite tecnologico, come si pensa comunemente. E' un limite della nostra specie, e forse di tutte le specie, senzienti e non.

Considerate il protagonista del prologo.
Sono io.
Siete voi.
E' l'alieno. Dopotutto anche lui è una forma di vita, e soggiace alle regole del comportamento animale.
Rileggetevi il prologo. Quanta importanza hanno le stelle? Per la maggior parte della nostra vita siamo incapaci di concentrarci su un progetto "alto", anche se - attenzione - si tratta di qualcosa che faremmo SOLO per noi stessi (tipo il libro che dovrebbe farci diventare scrittori e persone di successo)! Ci lasciamo distrarre da mille altre incombenze e piaceri, per fornire al nostro povero cervello un adeguato e più possibile costante flusso di endorfine, che ci faccia sentire bene e a posto con il mondo.
Figuriamoci cosa significherebbe metterci d'accordo per andare da qualche parte, tipo nello spazio profondo.
7 miliardi di persone che rinunciano a qualcosa di proprio, a qualche piccolo o grande privilegio, per mandare il capitano Kirk a spasso per le galassie...
Lasciando il nostro giardino incustodito alla mercè dei gatti?
Il graffio sullo specchietto da sistemare?

In questo blog mi piacerebbe parlarvi proprio di questo.
Di come gli alieni, cioè noi, hanno consumato le risorse non rinnovabili del proprio pianeta, in cent'anni di orgia industriale consumistica, che non si potrà più ripetere nella storia della Terra.

Per ogni pianeta vi è una sola possibilità, e credo che la nostra ce la siamo già bruciata con le gare di formula uno e le trasferte dei calciatori di serie A B C ecc.
Con le code in autostrada.
Con i televisori da 20,24,32,48,56,62,108 pollici, 2d, 3d, 4d+odorama, da buttare via ogni 3-4 anni.
Con le tonnellate di plastica in cui sono avvolti i nostri cibi e che dobbiamo buttare via ogni settimana. Ovviamente usando quei cazzo di sacchetti di plastica “biodegradabile” che si squartano a toccarli, 'che prima era troppo facile farlo con quelli normali, “altamente inquinanti”.
Siamo ridicoli.
Il peak everything incombe, Olduvai è alle porte. La complessità culturale della nostra società è figlia dell'energia abbondante e a buon mercato che abbiamo rubato alle viscere della terra.
Se non ne avete mai sentito parlare, vi invito a seguirmi: in futuro potrebbe esservi d'aiuto, e voi essere d'aiuto a me.
No, non è un blog da toccarsi le palle!
Però, se proprio volete...

Se poi Rossi e Focardi salveranno il mondo e la sua attuale insostenibile complessità con il loro E-cat...io continuerò ad andare in bicicletta, perchè è salutare, divertente e poetico.

E spero di incontrarvi sulla mia strada.