sabato 28 settembre 2013

SeNonHaiQuellaCosaNonSeiUnoDiNoi

Quando affronto il tema della della crisi sistemica globale con le più
svariate tipologie di persone, noto che il più grande dei tabù è proprio
quello della possibile prossima de-industrializzazione della società, o
quanto meno di un grosso ridimensionamento dell'industrializzazione.
Siamo semplicemente terrorizzati da questa idea…ho infatti  l’impressione
che tutti più o meno siamo consapevoli di essere immersi in una corrente
di profondo cambiamento, e ci sentiamo “astrattamente” pronti ad
affrontarlo: ecco, siamo pronti a respirare aria più pura, a mangiare cibo
a chilometri zero, perfino a zappare nell’orticello.
Ma l’idea di non poter più avere la seconda o terza auto di famiglia,o
pensare di festeggiare un compleanno senza bicchieri di plastica, è
semplicemente impensabile. Quando ne parli, la gente ti guarda come un
integralista. “Ma cosa stai farfugliando? Guarda che la gente non tornerà
mai a muoversi in bicicletta, è troppo faticoso…”
Quando si tocca l’argomento “tecnologia di consumo” scopro che questo
aspetto della vita dell’odierno homo sapiens non è negoziabile. Direi anzi
che è assolutamente intoccabile.
Ma perché dovremmo avere così tanta paura all’idea di vivere in un mondo
più lento?
Leggete il seguente articolo tratto dal sito http://www.oilcrash.com/italia.htm

Gabriele Casali

INDUSTRIALIZZAZIONE E' UGUALE A PROGRESSO?

Da sempre ci hanno abituati a considerare l’industrializzazione come
sinonimo di progresso, al punto che una società che non ha sviluppato una
economia di tipo industriale è, già solo per questo, considerata una
società arretrata.
Ma in realtà in cosa consiste l’industrializzazione?
Essa null’altro è che la sostituzione di una cultura materiale di tipo
individuale con una di tipo collettivo.
Prima che tale processo iniziasse, quando cioè l’organizzazione sociale
era prevalentemente di tipo rurale, la capacità di produrre da sé gran
parte delle risorse di cui si aveva bisogno era cosa comune, come lo è
tutt’oggi presso i superstiti popoli che ci hanno abituato (indottrinato)
a definire primitivi.
La cultura materiale insomma era posseduta individualmente da ciascuno.
L’industrializzazione ha progressivamente sostituito tutta una serie di
processi produttivi “maneggiabili” su scala individuale o familiare, o
comunque di piccole comunità, con una serie di processi produttivi che
presuppongono apparati di grosse dimensioni, a loro volta dipendenti da
reti commerciali ancora più vaste.
Prima che ciò avvenisse l’individuo era potenzialmente libero dalla
dipendenza dal proprio branco (uso qui questo termine in senso puramente
etologico). Ad esempio, nel medio evo, il feudatario aveva bisogno di
imporre l’obbligo di macinazione del grano nel proprio mulino, e i
conseguenti oneri, perché l’agricoltore sapeva benissimo come si macina il
grano e avrebbe potuto provvedere da sé.
La schiavitù dell’individuo insomma esisteva pur sempre (non ha mai
cessato di esistere) ma era da imporre dall’esterno. L’individuo aveva
tutte le conoscenze necessarie a provvedere da sé ai propri bisogni. La
cancellazione di questa cultura materiale individuale ha reso l’individuo
completamente — e intrinsecamente — dipendente dal branco anche per le sue
necessità di tipo più elementare.
Non c’è necessità, oggi alla quale l’individuo sappia provvedere con i
propri mezzi; egli sa fare ormai una sola cosa: vendere una consistente
parte del tempo della propria vita a un datore di lavoro dal quale riceve
in cambio del denaro che gli servirà a comprare il tempo della vita di
qualcun altro il quale provvederà a fornirgli questa o quella risorsa,
l’unica a sua volta che egli è in grado di produrre (l’idraulico, il
falegname, il salumiere, ecc.).
I biologi dividono gli animali in due categorie a seconda della capacità o
meno dei loro piccoli di procurarsi il cibo appena nati: atti e inetti.
Atti sono ad esempio i pulcini, inette sono le rondinelle e tutti i
mammiferi, fra cui l’uomo.
L’uomo (quanto meno l’uomo “industrializzato”) ha però in più una
caratteristica: è l’unico animale superiore che rimane inetto per tutta la
vita. Per trovare situazioni analoghe bisogna scendere fino al mondo degli
insetti (le formiche o le api), fino a casi estremi cioé in cui
l’individuo non ha una sua specifica identità ma è soltanto un elemento
puramente esecutivo all’interno di una entità più grande (il formicaio, lo
sciame…).
Questo è dunque ciò che ci hanno abituati a chiamare uno stato di
progresso avanzato: un totale annientamento dell’individuo, totalmente e
intrinsecamente sottoposto alla schiavitù del branco.
Il potere in una società industriale non ha alcun bisogno di emanare leggi
che costringano l’individuo a ricorrere alle strutture che esso possiede:
l’individuo non sa fare altrimenti, perché ha ormai perso ogni capacità di
badare a se stesso, anzi ha completamente perso la stessa concezione del
fatto che si possa fare altrimenti.
Tempo fa ho udito una donna dire: «l’anno scorso siamo impazziti e abbiamo
fatto l’orto»; ciò che era insomma la cosa più ovvia e quotidiana fino ad
appena qualche decennio fa oggi viene descritta non solo come cosa
eccezionale, ma addirittura eccentrica, assurda.
Alla stessa donna ho dovuto spiegare cosa significasse che il suo terreno
era esposto a nord.
E questo introduce un altro aspetto della questione: la perdita del
contatto col mondo reale: se il branco provvede a tutto, il branco è
tutto, null’altro esiste al di fuori di esso. Credo che mai, neppure nel
medio evo della Santa Inquisizione, neppure nell’Egitto dei faraoni, il
branco abbia assunto una fisionomia così totalizzante, al punto da
cancellare non solo le potenzialità di libertà dell’individuo, ma la sua
stessa percezione del mondo reale.
Si ricorderà la nota scena del film Padre padrone in cui al bambino viene
insegnato a riconoscere i suoni della campagna che lo circonda: bene, è
falso affermare che il padre di Gavino Ledda lo abbia strappato dalla
scuola per consegnarlo alla barbarie e all’ignoranza: lo ha trasferito da
una scuola a un’altra scuola (prescindo naturalmente dai metodi usati da
quest’uomo, che sono tutto un altro discorso); aggiungo, dalla scuola
delle parole alla scuola del mondo reale.
Si potrà obiettare che è vero, tutto ciò è accaduto, ma questo ci ha
consentito un nettissimo miglioramento del nostro livello di vita. È una
delle più grandi menzogne che la “propaganda di regime” (non so come altro
chiamarla) ci ha propinato, e con molta efficacia a quanto pare.
In realtà la qualità dei prodotti e dei servizi messi a nostra
disposizione dagli apparati industriali, e di riflesso la qualità della
nostra vita che, come già detto, è da essi strettamente dipendente, non è
nella maggior parte dei casi migliore di quella degli equivalenti prodotti
e servizi realizzabili individualmente o comunque su piccola scala.
I procedimenti industriali consentono soltanto di concentrare la
produzione e realizzarla in grande quantità ma senza che ciò comporti
alcun miglioramento qualitativo.
Del resto il marchio “Produzione artigianale” è ormai, e con ragione,
comunemente considerato sinonimo di qualità. Esempio banale: un panificio
che vuole pubblicizzare la qualità dei suoi prodotti espone abitualmente
una insegna del tipo: “Pane casareccio con forno a legna”, non si vanterà
mai di certo di usare un forno elettrico e di lavorare in serie.
Un esempio a mio avviso significativo è quello dei cesti, fino a qualche
tempo fa realizzati mediante verghe e canne intrecciate a mano e oggi
generalmente sostituiti da contenitori di plastica.
Per realizzare un cesto di verghe e canne occorrono a un esperto
intrecciatore due ore di tempo e una minima, davvero minima quantità di
semplicissimi attrezzi (il più “complesso” è costituito da un paio di
cesoie), nonché, ovviamente, la conoscenza delle tecniche di intreccio.
Il risultato è un oggetto di notevole pregio estetico, pratico e robusto;
si pensi a quest’ultimo proposito che mia madre ha un paniere vecchio di
oltre 50 anni e che esso è assolutamente indistinguibile, dal punto di
vista dell’usura, da un altro realizzato con l’identica tecnica qualche
mese fa.
Per confronto gli analoghi contenitori prodotti dall’industria della
plastica richiedono grossi apparati industriali, a loro volta dipendenti
dagli ancora più grossi apparati dell’industria petrolifera, sono in
genere oggetti privi di ogni pregio estetico e vanno a pezzi nel giro di
pochi anni.
Dunque quale è stato, in questo campo, il risultato dell’industrializzazione?
Un oggetto dozzinale e di breve durata ha preso il posto di un altro
robusto, duraturo e bello.
Inoltre, il diffondersi di tali oggetti ha comportato il progressivo oblio
delle tecniche di intreccio, tecniche alla portata di tutti a favore di
altre tecniche, non certo attuabili né, ovviamente su scala individuale,
né su scala locale. L’individuo che aveva bisogno di un contenitore
insomma aveva fino a qualche tempo fa la possibilità di costruirselo da
sé, oggi non ha altra scelta che comprarlo dall’industria, perché non sa
più come fare.
Un’altra menzogna che ci viene spesso ripetuta è che la tecnologia
industriale consente all’uomo di avere un maggior quantità di tempo
libero, eppure tutti intorno a me non cessano di ripetere che vanno sempre
di fretta, e che questa o quella cosa non si può più fare perché non c’è
più il tempo che c’era una volta.
E sempre a proposito di tecnologia, ho udito tempo fa casualmente una
trasmissione televisiva sull’industria vitivinicola in cui almeno metà
delle frasi pronunciate dallo speaker iniziavano con le parole: «grazie
alla tecnologia…» e la cui tesi era che il vino “tecnologico” prodotto
oggi è molto migliore di quello prodotto una volta con tecniche
casalinghe.
La persona che mi ha insegnato a fare il vino lo fa in casa da decenni;
l’ho assaggiato trovandolo squisito, di gran lunga superiore a quello
commerciale ottenuto «grazie alla tecnologia».
Ultimo esempio (ma potrei andare avanti ancora a lungo): di recente ho
ritrovato la casa di una mia prozia che viveva in piena campagna sui
Nebrodi orientali, dove andavo a volte a trascorrere qualche giorno
d’estate da bambino: è un casale immerso nel verde di splendidi boschi e
uliveti, dal quale si gode la vista del mare in lontananza su cui
galleggiano, all’orizzonte, le isole Eolie.
Trovo superfluo dilungarmi nel descrivere la quiete del luogo, l’aria
pulita eccetera: sono cose che troverete su ogni pubblicità di azienda
agrituristica, e cui evidentemente non si attribuisce poco valore se si è
disposti a versare nelle tasche dei titolari di tali aziende fino a
100.000 lire al giorno.
Per confronto, un’altra mia parente trasferitasi da giovane a Roma, vive
oggi in un piccolo appatamento al sesto piano di un gigantesco condominio
sulla Tiburtina, dal cui balconcino si gode la vista… del muro del
condominio di fronte.
È questo dunque il miglioramento della qualità della vita?
Con ciò non voglio dire che i contadini stessero bene: spesso la miseria
faceva parte della loro vita, ma ciò nasceva da condizioni estrinseche
(l’oppressione del feudatario nel medioevo, del latifondista in tempi più
recenti…); oggi un’altra miseria si è sostituita a quella, la miseria di
una squallida vita da formicaio, con in più il fatto che questa è una
miseria ormai intrinseca, connaturata a questo modello economico che
presuntuosamente chiamano “modello di sviluppo”.
Si potrà obiettare che molte tecnologie che così tanta parte hanno oggi
nella vita di ciascuno di noi sono talmente sofisticate da non essere
neppure pensabile che esse siano producibili individualmente o a livello
di piccola comunità.
È vero, tuttavia domando: ne abbiamo veramente bisogno? O meglio, più in
generale, quanti dei nostri “bisogni” quotidiani sono veramente tali e
quanti sono al contrario indotti dal tipo di vita che conduciamo allo
scopo di procurarci i mezzi economici necessari a soddisfare quei bisogni
(esempio: l’automobile)? Qualche tempo fa notavo che mia madre vive
agiatamente con una pensione che, se fosse il mio stipendio,
rappresenterebbe per me uno stato prossimo alla povertà.
La ragione è che mia madre non ha alcun mutuo da pagare (io ho dovuto
comprare una casa a distanza accettabile dal posto di lavoro, pagandola un
prezzo molto più alto di quel che avrei potuto pagare una casa analoga
posta in un luogo più desueto), non deve mantenere i costi di
un’automobile (io ne ho bisogno quotidianamente per andare al lavoro),
eccetera.
Fin troppo facile immaginare che quando le circostanze mi consentiranno di
lasciare il lavoro “dipendente” e dedicarmi interamente al progetto che
sto qui descrivendo, le mie esigenze di tipo economico si ridurranno di
parecchio. In condizioni ideali, sarebbe perfino lecito affermare che esse
possano ridursi a zero.
Un altro punto è costituito dai bisogni di tipo psicologico, ovvero
totalmente fittizi perché creati artificiosamente dal branco, bisogni cioé
che sono tali solo perché il branco ci ha inculcato fin da piccoli l’idea
che “
senonhaiquellacosanonseiunodinoi” (esempio: la televisione, il
telefono cellulare): qualche tempo fa ho udito una persona di Ucria, di
quelle che sanno ancora fare il pane a mano col forno a legna, dunque non
certo fra le più immerse nel mondo della produzione industriale, l’ho
udita dicevo pronunciare una frase come: «ma come facevano una volta senza
televisione?» Si è giunti al punto che perfino un oggetto fra i più
insulsi (e non aggiungo altro) è considerato fra i bisogni primari.
Fra i quali invece non ci sono cose come l’aria pulita, la vita sana, il
buon cibo, il contatto con la bellezza del mondo naturale e molte altre
cose di cui si fa quotidianamente a meno convinti che sia un dettaglio
trascurabile in confronto al superiore fine del raggiungimento del
“benessere”.
Non rendendosi conto che il vero benessere è costituito proprio da queste
cose.
Qualche tempo fa udivo durante una trasmissione televisiva parlare di
Tokio: un luogo dove lo spazio pro capite è fra i più bassi del mondo,
eppure, diceva lo speaker, nonostante vivano letteralmente ammassati gli
uni sugli altri, nonostante l’aria irrespirabile (sono divenute famose le
prese di ossigeno nella metropolitana) e tutto il resto il tenore di vita
a Tokio è fra i più alti del mondo. Mi domando che cosa intendessero gli
autori di quella trasmissione con il termine “tenore di vita” per definire
così positivamente quello di un tale formicaio.